Oltre al limite generale del 20%, la facoltà di iscrizione di riserve è stata assoggettata dal Decreto Sviluppo del 2011 ad un ulteriore limite oggettivo: esse non possono essere apposte con riferimento agli aspetti progettuali che sono stati fatti oggetto di “validazione”. Come va interpretata tale disposizione?
A nostro avviso è da escludersi che la norma possa riferirsi a quei casi in cui l’errore progettuale comporti la necessità di adottare una perizia di variante.
Secondo l’art. 32 lettera e) del codice (che non è stato evidentemente abrogato) “gli errori del progetto esecutivo che pregiudicano, in tutto o in parte, la realizzazione dell’opera ovvero la sua utilizzazione” comportano l’adozione di una perizia di variante. Tale obbligo rimane e la mancata adozione della perizia di variante (anche in presenza di un progetto validato) costituirebbe un illecito contrattuale comunque sanzionabile dall’appaltatore con apposite riserve che avrebbero ad oggetto non l’errore progettuale in sé ma la mancata adozione e/o valorizzazione di maggiori lavori da eseguirsi in variante rispetto al progetto esecutivo.
Perciò il caso di errori ad esempio nel calcolo dei ferri, di errori nel profilo dei rilevati di errata valutazione delle caratteristiche del sottosuolo che (nel caso in cui sia riconducibile a difetto o carenza dei sondaggi), di incongruenza tra elaborati architettonici e elaborati strutturali, l’opera varia nelle sue caratteristiche tecniche o dimensionali, e la perizia di variante è necessaria e deve essere retribuita all’appaltatore come recita l’art. 132 del codice.
Del resto la sospensione dei lavori in conseguenza di una perizia di variante finalizzata a sanare l’errore di progettazione ai sensi dell’art. 132 comma 1 lettera e) è l’unica ipotesi non contemplata tra le “circostanze speciali” che fanno ritenere legittima la sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 159 del nuovo regolamento (già art.24 del D.min 145/00) e l’art. 161 comma 18 del nuovo regolamento sancisce la responsabilità dell’esecutore progettista per i maggiori costi derivanti da varianti necessarie ad emendare l’errore progettuale (lasciando intendere che negli altri casi, cioè quanto progettista è il committente, sia quest’ultimo a doversi fare carico dei maggiori costi).
La fattispecie si riferisce evidentemente a quegli errori progettuali che non richiedono l’adozione di una perizia di variante, richiedendo essi soltanto l’adozione di misure o interventi sì più onerosi, ma che non comportano la modifica della configurazione dimensionale o qualitativa dell’opera.
Si pensi alla presenza di sottoservizi non segnalati dal progetto che richiedono di essere rimossi, alla mancata acquisizione di aree per incompletezza del piano particellare di esproprio, alla necessità di garantire l’accesso ai fondi interclusi, alla insufficienza delle aree di cantiere messe a disposizione dell’impresa, alla indisponibilità delle cave di prestito o delle discariche cui destinare i materiali di risulta. Si tratta di situazioni in cui la configurazione dimensionale o qualitativa dell’opera non cambia, a cambiare sono gli oneri e i costi delle operazioni necessarie per realizzarla.
Ma la norma è comunque di difficile inquadramento sistematico nel nostro ordinamento e ancor di più nel codice degli appalti.
Essa costituisce una eccezione rilevantissima al principio del neminem laedere.
In ogni caso, è singolare che la norma assuma come presupposto il fatto che un progetto validato sia inattaccabile, mentre l’articolo 56 del regolamento, contempla proprio l’ipotesi che il validatore risponda a titolo di inadempimento per errata validazione del progetto.