Blog / Accordo bonario

06/12/2012

IL TETTO ALLE RISERVE INTRODOTTO DAL DECRETO SVILUPPO 2011 ALLA PROVA DEI FATTI

Sono passati più di diciotto mesi da quanto il decreto legge del ministro Tremonti n. 70 del 13 maggio 2011 ha introdotto i cosiddetti “tetti” all’importo delle riserve. Oggi si incominciano a registrare le prime riserve che rischiano di dovere fare i conti con queste norme, applicabili agli appalti banditi a partire dal 14 maggio 2011.

Pertanto in questi mesi siamo nella condizione di iniziare ad affrontare concretamente il problema della iscrizione e gestione delle riserve iscritte dagli appaltatori in questi contratti, molti dei quali sono oggi in corso di esecuzione.

Quali possono essere le conseguenze? Quali i comportamenti adottare?

Quelle contenute nel decreto sviluppo in tema di limiti alle riserve sono norme del tutto straordinarie e derogatorie dei principi cardine del nostro diritto civile che, come il diritto romano classico dal quale deriva, è fondato sul principio di responsabilità: chi si rende attore di un comportamento antigiuridico deve rispondere delle conseguenze dannose che esso produce agli altri membri del consorzio sociale.

L’art. 240 bis del Codice degli appalti, come modificato dal Decreto legge 70/2011, introduce innanzitutto un limite quantitativo parametrato sulle riserve in genere (L'importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al venti per cento dell'importo contrattuale)

Mettendo da parte per il momento più pregnanti considerazioni di costituzionalità (è mai possibile ipotizzare di sterilizzare in anticipo il diritto a far valere le proprie ragioni che si ritengono illegittimamente rese? Non sarebbe meglio introdurre norme sanzionatorie delle liti temerarie piuttosto che comprimere il diritto di lite in quanto tale?), viene innanzitutto da chiedersi se tale percentuale debba ritenersi riferita alle riserve iscritte dall’appaltatore o a quelle riconosciute dal committente.

E’ vero che siamo un paese in fase crisi economica e di decadenza giuridica, ma entrambe le interpretazioni non sembrano evitare una sconfortante conclusione: si sposta l’asticella del problema ma l’assurdità della norma non viene meno.

Infatti, anche interpretando la norma non come un limite alla richiesta, ma come un limite al riconoscimento “chiedete e vi sarà dato (ma solo fino al 20%)” , sfugge la logica di un tale modo di scrivere il diritto che poco ha di giuridico e di costituzionale e molto di ragioneristico.

Vero è che spesso le imprese sono solite “gonfiare” l’ammontare delle richieste (che nella sostanza poi puntano ad obiettivi ben più modesti di quelli che risultano dalle quantificazioni delle riserve), ma questa non è la causa delle distorsioni, ne è solo l’effetto.

Sarebbe infatti bastato sollecitare, anche a livello della Magistratura Contabile, una abitudine alla seria e rigorosa disamina delle richieste e delle loro quantificazioni ma ritengo, soprattutto, una preventiva ed effettiva ricognizione del livello qualitativo dei progetti e dello stato dei luoghi, (beninteso tanto da parte del committente che da parte del progettista e dell’appaltatore) per arginare la proliferazione delle riserve.

Leggendo la relazione di accompagnamento al decreto legge n.70, si evince che l’intenzione è stata quella di far rientrare nel “rischio di impresa” le conseguenze di imprevisti che si traducano in un incremento di costi eccedenti il 20% dell’importo contrattuale.

Non è una novità che norme di legge prevedano che l’appaltatore si faccia carico di una parte dei rischi anche quando questi siano oggettivamente imponderabili (si pensi alle ”franchigie” previste in materia di compensazioni dei prezzi e, ancor prima, al meccanismo di cui all’art. 1664 comma 1 del codice civile, per gli appalti privati), ma appunto si è sempre trattato di limiti e rinunce che operano con riferimento agli oneri contenuti “entro” un tetto massimo (“franchigie”)  e non per quelli che si spingano “oltre” il tetto massimo con la conseguente  assunzione di un rischio potenzialmente illimitato per l’appaltatore.

La miopia ragioneristica di tale concezione è tale da non considerare le possibili conseguenze, anche e soprattutto per l’Erario, laddove situazioni particolarmente patologiche non consentano più di prevedere un rimedio diverso da quello della risoluzione del contratto per errore progettuale eccedente il 20%, per eccessiva onerosità o per inadempimento del committente (azioni che il Decreto legge, con buona pace della certezza del diritto, si è dimenticato di “sterilizzare”).

Qui si vogliono lanciare soltanto alcuni spunti di discussione e i lettori del blog potranno confrontarsi sull’”aria che tira” e sugli atteggiamenti che essi concretamente stanno assumendo e vedendo assumere dalle loro controparti e interlocutori nei ruoli contrapposti di esecutori o committenti, progettisti o validatori nella interpretazione ed applicazione di norme dettate al Legislatore dalle contingenti emergenze del momento e la cui emanazione avrebbe meritato, invece, una ben più ponderata riflessione.